mercoledì 6 marzo 2013

Fu nel 1968 che...

Fu nel 1968 che incontrai per la prima volta lo zen, ma non lo riconobbi. Si presentò sotto le sembianze di un libro [1]; nell’aria, gli accordi del sitar di George Harrison e i versi dei poeti beat. Il titolo parlava di “vuoto mentale”. Lo lessi, lo misi nello scaffale, e continuai tranquillamente a riempire la mente. Incontrai nuovamente lo zen trent’anni dopo, nella veste, più dimessa, del volantino di un Centro Zen di Savona. 
Qualche giorno dopo, seduto su un cuscino nero, mi ritrovai ad osservare un muro bianco su cui si stagliava nitida la mia ombra. L’ombra di un corpo semplicemente seduto su un cuscino. 
Per un po’ la guardai soltanto, poi la vidi. “Ecco, è questo”. 
Certo, tra il libro del ’68 e il volantino del ’98 ci sono stati una dozzina di anni di pratica dello yoga. Da cui, quanto meno, ho avuto la conferma del fatto che l’Occidente non è quell’ombelico del mondo che ritiene di essere, ed ho appreso che non vi è poi nulla di strano nel passare ore seduto su un cuscino. 
Esauritasi la spinta propulsiva del mio rapporto con lo yoga, fu del tutto naturale transitare dal mandir al dojo, e lì continuare a cercare…per scoprire, col passare del tempo, che la pratica di zazen – l’essere semplicemente seduto su un cuscino – è una grande de-lusione. 
Perché zazen non lascia molto spazio alle il-lusioni. Nelle ore trascorse seduto, nell’afa estiva o con gli occhi velati dalla sonnolenza, i pensieri più nobili – la compassione, l’amore, il Buddha – e quelli più egocentrati – il lavoro, le opinioni su ogni cosa, le ansie quotidiane – appassiscono allo stesso modo nelle mani. 
La mente insegue ricordi ed elabora complicati progetti, ma è poi il respiro che li prosciuga, allorquando su di esso si pone l’attenzione. 
Il corpo stesso, immobile, vigila e riporta alla realtà del momento presente, con il contatto lieve del respiro o con il ginocchio indolenzito; o magari con il passo incerto, durante kin-hin, di chi ancora sta imparando a camminare. 
Il richiamo delle campane o uno sciacquone, una TV accesa o il cinguettio degli stornelli, ritornano ad essere semplici suoni. Nulla di mistico o di esoterico da inseguire, nulla di fastidioso da rigettare. Tranquille onde sonore nell’aria. 
Un colpo di tosse o un aroma d’incenso, una parola o il silenzio, un’ombra vera o solo immaginata. Al pari di un antico sutra, ogni fenomeno è di per sé un prezioso insegnamento. 
Nel dojo si sente ripetere spesso che zazen non serve a nulla, che in kin-hin non si va da nessuna parte, che non vi è nulla da ottenere. Parole asciutte, come la pratica stessa. Una pratica in apparenza sempre eguale a se stessa, non gratificante; epperò gratuita, come un dono che si fa o si riceve, senza nulla in cambio. 
Imprevedibile, perché ogni volta nuova. Mi siedo pregustando momenti di silenzio e di pace, e subito la mente si affolla di pensieri nervosi, o il corpo scivola in avanti sul cuscino, gli occhi lacrimano, il tempo non passa mai. Arrivo al dojo stanco, inquieto, e lo zazen porta con sé energia, freschezza. 
Ed ogni volta, istante per istante, mi osservo in zazen, come al mattino nello specchio: mi arrabbio, cerco di abbracciare la mia rabbia, di volerle bene; affiorano ricordi dolorosi, li accompagno col respiro; una folla grida scomposta nella mente, pian piano diviene sussurro. 
Perché pratico zazen? – talvolta mi chiedo, molti mi domandano. 
Non è nulla di speciale, è stato detto. Ed è vero, ma è lo stesso importante. 
Non mi serve per dare un senso alla mia vita. La vita ha già il suo significato, e la sua direzione, in se stessa. E zazen non è altro rispetto alla vita, non le si aggiunge. L’uccello non ha le ali per volare; ha le ali, e vola. 
Scrisse molti secoli or sono il Maestro Dogen: "Ogni cosa canta la verità senza aggiungere nulla”. Non serve zazen per essere in unità con il corpo, lo spirito, il mondo. L’unità per essere tale non abbisogna d’altro; aggiungere all’uno significa divenire due, o diecimila. 
E’ stato detto che non si pratica per ottenere il Risveglio, ma si pratica perché si è risvegliati. Si legge nel Sutra del Nirvana Definitivo: “Alcuni passano un grande fiume facendo un ponte… altri legano insieme una zattera; gli uomini sapienti hanno già attraversato”. 
Ed ancora il Maestro Dogen disse che “La Via è fondamentalmente perfetta”. Allora, perché zazen? 
Ma anche Francesco d’Assisi, quando si sentì chiedere da un confratello: “Se è vero che Gesù ha salvato tutti gli uomini, perché dobbiamo condurre questa vita di preghiera e povertà?”, capì subito di avere davanti a sé il diavolo, e lo scacciò - o più probabilmente lo invitò a pregare con lui. 
Forse, allora, non c’è un vero perché, del tutto visibile e razionale. Forse c’è stato, e poi l’ho lasciato semplicemente andare. Continuare a cercarlo, sarebbe aggiungere concetti a parole ad altri concetti. Val meglio aprirsi a ciò che la vita, il caso, il karma, mi offrono giorno dopo giorno. 
Allora, unisco le mani in gassho, riconoscente verso tutti gli esseri che mi furono e mi sono Maestri. Poi siedo incrociando le gambe, come fece il Buddha Shakyamuni sotto l’albero del Risveglio, e finalmente respiro.

 

sacro e profano: 
un bastone di legno 
sul pavimento 



1) "La dottrina zen del vuoto mentale" di D.T. Suzuki

di Mauro Tonko, monaco zen